L'editoriale del vecchio penalista

Editoriale del vecchio penalista.

Dei delitti e delle pene 1764 - 2015
 
Venticinque anni prima della rivoluzione francese Cesare Bonesana Beccaria, marchese di Gualdrasco e di Villareggio, scrisse la sua opera più famosa “Dei delitti e delle pene”.
Oltre due secoli fa il processo penale e il suo epilogo “la pena” meritavano l’attenzione del grande illuminista.
Se la critica e la censura della pena di morte e della tortura hanno valore permanente e universale, meno noti ma altrettanto validi sono altri postulati del pensiero del Beccaria.
Quanta attualità v’è nell’affermazione che più che la gravità della pena ne conti “la certezza”.
Portata ai nostri tempi e nel nostro Paese, la certezza della pena è ancora argomento di riflessione.
E ciò non tanto per la fisiologica distonia fra pena edittale e pena in concreto, quanto per l’aleatorietà della sua fase esecutiva.
E valga l’esempio più noto: si dice dell’ergastolo “fine pena mai”; in numerosissimi casi ciò non accade, si pensi alla liberazione anticipata o alla grazia.
Nell’anno domini 2015 ci sentiamo di aderire totalmente alla riflessioni del grande illuminista: l’effetto deterrente della pena non sta nella sua gravità ma nella certezza dell’espiazione.
In altre parole è inutile prevedere per un reato numerosi anni di prigione quando il reo sa bene che in sede esecutiva ciò non avverrà.
E questa prima riflessione altre ne suscita.
Troppo spesso il legislatore, con mera vocazione populista, inasprisce le pene sull’onda dell’opinione pubblica emozionata da fatti che la turbano.
La vicenda è di questi giorni: la creazione dell’omicidio “stradale” come figura autonoma rispetto al reato previsto e punito dall’art. 589 C.P..
Abbiano già avuto occasione di affermare (a nostro avviso) la totale inutilità di questa novellazione; l’omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale è punito con la reclusione fino a sette anni e, ove aggravato, fino a dieci per arrivare a quindici nell’ipotesi prevista dall’ultimo comma dell’art, 589 C.P..
Dunque pene assai severe ove concretamente irrogate.
Ma a questo punto s’innesta una possibile, concreta devianza: spesso in sede di cognizione i giudici (forse nel rispetto dei criteri sanciti dall’art. 133 C.P.) applicano i minimi della pena, fors’anche diminuiti da possibili attenuanti.
Il legislatore, non potendo ordinare ai giudici comportamenti diversi da quelli previsti dalla legge, inasprisce le pene.
Ma questa scelta ci appare persino contraria ad un ordinamento democratico e ci fa ricordare con un tremito il diritto penale nella Germania nazista.
La questione della certezza della pena assume nel nostro Paese ed in questi anni una dimensione ulteriormente preoccupante per un’emergenza sociale in atto: l’arrivo e la presenza sul territorio nazionale di cittadini extracomunitari appartenenti a culture del tutto dissimili a quella italiana ed europea.
Portiamo un esempio per fare intendere il nostro pensiero: vi sono paesi di cultura e diritto islamici dove il reato di furto è punito con il taglio delle mani; che portata deterrente può avere che in Italia il furto è punito con qualche mese di reclusione, spesso con un processo lontano dai fatti e magari con l’epilogo della sospensione condizionale della pena?
Ovviamente nessuno auspica l’introduzione di incivili pene corporali; ma occorrerà, almeno, celebrare rapidamente i processi, possibilmente con rito direttissimo, e concedendo la sospensione condizionale nel puntuale rispetto dell’art. 164 C.P. ovvero quando in via prognostica vi sia certezza che il condannato non commetterà altri reati.
Questa è pretesa che il governo può avere nei confronti dei giudici perché del tutto conforme a legge.
Sperando che il legislatore si desti dal sonno della ragione.
 
19 Novembre 2015
 

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